di Nicola AUCIELLO
Penso alla graniglia e mi rimanda a ricordi di infanzia: ampie stanze in sequenza, qualche volta socchiuse in attesa che qualcuno le riaprisse, lasciano intravedere uno scenario composto da enormi tappeti di pietre colorate, pozzi specchianti di gaiezza e di luce; svoltar l’angolo, da un ambiente all’altro, è sorpresa: sul pavimento si cammina, lo si legge, e come uno spartito musicale segna il nostro movimento.
Sono graniglie, assemblati di scarti di marmo, pietra e cemento, che, a volte, simulano l’attraversamento delle pareti, ricucendo sul tessuto esistente, ambienti come rammendi.
Nel ricordo è ancora presente l’odore di quegli spazi proveniente dalle finestre aperte su una corte con roseto, di erba fresca e di lieve vento: quel profumo, quei colori e geometrie calpestate mi riportano a un’armonia ideale.
Volte bianche con gessi in rilievo, mi perdo con lo sguardo osservandole per poi, quasi come una videocamera in slow-motion, scendere verso il basso, zoomando, e identifico enormi quadri calpestabili policromi. Nulla è più vivo delle geometrie inattese e dei colori mediterranei di quei pavimenti.
Per mantenere vivo un ricordo c’è bisogno di oggetti concreti, e cosa c’è di più concreto di una casa?
Cosa di più concreto di un impasto di pietra, marmo e cemento?
Le case borghesi dell’Ottocento/Novecento hanno un’importante collocazione nell’architettura degli interni, memori di quell’abitare lento e conviviale che un materiale inizialmente povero come la graniglia – uno dei primi casi di ready-made – ha magistralmente caratterizzato.
Corato, Puglia: interni della casa ristrutturata dall’arch. Esther Tattoli.
Architetti Marcante-Testa, ph. Ripamonti